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Prevaleva a questi di il genio di coloro, che portarono all'eccesso i modi di Michelangelo, e cominciarono senza quello studio, che una tal via ricercava, a metter fuori o nelle mosse alcuni storcimenti di vita assai strani, o negli ignudi certi muscoli troppo risoluti, o nel colore un tinteggiare falso, o altre simili stravaganze contrarie a ciò, che insegna la natura; ed a vieppiu indurli a questa scorretta via concorreva la straordinaria volontà non solo del Sovrano, ma d'ogni ceto di persone, che mai avevano tanto eccitato gli artisti ad eseguire frettolosamente così grandi, e moltiplici lavori, come in questo periodo. Cati non era certamente uno di quei pittori, il cui nome superasse i moltissimi, che dimoravano in Roma; eppure infinite furono le ordinazioni, che ottenne. In Santa Maria in Trastevere dipinse da capo a piedi la Cappella del Sagramento (4); nella Tribuna di Santa Maria Maggiore sotto il Tabernacolo alcuni Angeli oranti; nella piazza della Trinità dei Monti un'intera facciata con figure grandi più del vero, ed altret tanto incontro San Giacomo degli incurabili, dove vedevansi affresco diverse storie con figure e teste ( dice il Baglioni (5)) assai vaghe. Cosa egli operasse nella provincia natale, non ci è noto, percui è a credersi, che istruito in Roma, più non la lasciasse. Fece parte degli Accademici di San Luca, allorchè n' era Principe Federico Zuccheri (6), ed ivi mori oltre il settantesimo anno d'età nel pontificato di Paolo V.

Ebbe questo pittore a compagni ne suoi lavori in Roma i due fratelli Cesare e Vincenzo Conti d'Ancona. Uguali al Cati nel merito, e nella maniera ottennero anch'essi non dissimile fortuna, e le vecchie Guide di Roma ricordano i molti travagli d' ambidue in quelle Chiese sotto i pontificati di Gregorio, di Sisto, e di Paolo.

Era Cesare assai franco nel trattare arabeschi e fogliami, che introduceva ne' grandiosi ed estesi fregì che gli si allogarono, come avvenne laudatissimo quello, che fece per la Chiesa di Santa Maria in Trastevere il quale percorreva tutta la navata di mezzo.

Ugual' plauso acquistò per altri lavori di tal genere eseguiti

nella Chiesa di San Spirito in Sassia, alla Scala Santa, ed in una delle sale del Campidoglio; e mentre così occupavasi, il fratello Vincenzo soddisfaceva agli obblighi contratti colle Monache di Santa Cecilia in Trestevere, per le quali dipinse nella loro Chiesa al lato destro della Cappella maggiore diversi Santi; pitture che si perdettero coi nuovi addattamenti fatti in quella fabbrica: ed ora di costui rimangono soltanto in Roma nella Chiesa di Sant' Agostino alcune spiritose storiette di San Niccola nella volta della Cappella a questo Santo dedicata.

Compiute queste cose separaronsi i fratelli Conti. Vincenzo parti per Torino, ov' ebbe a servive il Duca di Savoja: e Cesare si condusse a Macerata richiestovi dalla Compagnia detta de' Bifolchi, la quale avendo comperata la maggiore Cappella della Chiesa di Santa Maria delle Vergini, volle vi dipingesse nel 1574 l'ancona colle nozze di Cana Galilea; opera, che riuscì pregievole per alcune belle teste, e se le tinte, che adoprò nella parte superiore della tela fossero più leggiere, aeree, o meglio accordate col restante del quadro avrebbe forse acquistato una maggiore estimazione (7).

Anche le lunette del chiostro di San Francesco di Macerata furono dipinte dal Conti; ma esse perirono col restante della fab

brica.

Lasciò Vincenzo le sue spoglie mortali in Macerata, quasi in pari tempo, che il Cati suo compagno mancò di vita in Roma (8).

Da un altra scuola, ov'era adottato un metodo non dissimile da quel genio che in questo tempo prevaleva derivò Giovanni Lombardelli da Montenuovo nella Marca, terra non molto lungi da Jesi. Aveva studiato ne primi suoi anni la dipintura da Marco Marcucci da Faenza (9), il quale piucchè nella figura attese specialmente a ben ritrarre capricci, arabeschi, animali, fogliami, che uniti tutti insieme, grotteschi questi lavori si nominarono, e per tali cose che si volevono dipinte ne pilastri delle Logge Vaticane, ebb' egli la speciale sopraintendenza. Colla guida pertanto del Marcucci dipinse Giovanni nel 1566 un quadro col presepio

per una Chiesa rurale del suo Paese dedicata al Crocifisso, avendo con tal soggetto potuto ben corrispondere agli ammaestramenti ricevuti (10). Partito da Montenovo, ove qualche altra cosa pure eseguì, lo ritrovo nel 1579 a dipingere in un de' chiostri dei PP. di San Domenico di Perugia, ed in ogni lunetta figurò i fasti del Fondatore, oltre quelli di molti Frati, che ottimo odore di virtù avevano lasciato in quel Convento (11). Furono queste cose lavorate con franchezza, ma troppo fidando nel proprio ingegno, non studio abbastanza per correggere i difetti, che il più delle volte da questa franchezza medesima derivano. Quello però che non pone dubbio si è, che il suo modo di dipingere piaceva, e le lodi che andava riscuotendo lo fecero più presto risolvere a girsene in Roma; ivi trovò larghissimo spazio di dare libero sfogo alla sua fantasia, e giovarsi della sua molta pratica, e facilità non solo per competere, ma ben anche per superare l'operosità dei suoi compagni. Posti da banda i precetti ricevuti da Marco da Faenza, diedesi anch'esso a seguitare il volgare stile de' giovani pittori, i quali tutti si decidevono per le maniere usate a quei di specialmente da Raffaellino da Reggio, il quale più che ogni altro veniva applaudito (12). Con esso accomodossi per i lavori, che si facevano nelle logge vaticane, e dopo avervi molte cose eseguite, ebbe a particolare uffizio gli ornamenti, che si ordinarono nella vecchia sala della guardia Svizzera, dov' espresse la Fede entro un' arco sfondato, ed in un' altro dipinse la Vigilanza con terretta gialla, e nella facciata di prospetto alla porta d'ingresso la Speranza; figure tutte, che per le colossali loro proporzioni lo distinguono buon pratico, ed intelligente pittore (13). Framezzava queste sue fatiche con altri incarichi, che tutto giorno gli si moltiplicavano. Pei Frati di San Pietro in Montorio dipinse nel Chiostro diverse storie della vita di San Francesco; nella Chiesa di Sant' Antonio a pochi passi da quella di Santa Maria Maggiore sono sue le gesta del Santo Abbate, che vi girono d' intorno, e di queste facendosi parola in un codice della Barbariniana vi si loda la risoluzione, l'invenzione, e lo spirito, e per tali parti

il plauso gli conviene (14). Di vasta orditura fu la storia, ch'escgul con l'apparizione dell' Angelo a San Gregorio Papa, esistente nella terza cappella a mano sinistra della Chiesa di Santa Maria ai Monti; molta vivacità riscontrasi nella tela colla Circoncisione, che tuttora vedesi nella Chiesa di Santo Spirito in Sassia. Ed in fine furono apprezzate le lunette, che da esso si operarono nel chiostro della Trinità de' Monti, ove tre di esse coi fasti di San Francesco di Paola si dipingevano contemporaneamente dal Cati (15).

Cinque soli anni bastarono al Lombardelli per operare il tutto fin qui riferito, e da ciò è a dedursi quanto pratico nell'arte egli si fosse; ma pur troppo, il ripeto, fu la fretta una delle cagioni principali dell'attuale decadimento, e fu quella, che fece perdere molti genj singolari; se meglio questi avessero calcolato il merito che ritratto avrebbero, dandosi a seguire puramente il vero bello, senza correre allo stravagante, sarebbe questa una di quelle età che servito avrebbe di esempio all' epoche posteriori. Se la fervidezza delle idee negli uomini non viene corretta da una saggia, e prudente riflessione, ne segue un tardo, ma inutile pentimento; e questo sia detto, non solo per lo scopo nostro, ma per qualunque altro rapporto Tutto viziò infatti nel Mondo quando l'ardente fantasia non venne moderata dal senno,

considerazione.

e dalla

Ma tornando al metodo dal nostro pittore praticato, a meglio dimostrarlo gioverà qui il narrare quanto diceva Agostino Caracci, il quale incontrandosi con un giovane, che s'avviava a San Pietro in Montorio, per copiarvi la Trasfigurazione di Raffaele, lo vide prima soffermarsi a ritrarre una di quelle lunette, che il Lombardelli aveva dipinto nel Claustro, e richiestolo perchè il facesse: gli rispose per digrossarmi la mano; al che replicò Agostino anzi per ingrossarti. E con tal dire insegnò, che mentre questi pittori maravigliano per quella loro spontaneità e fuoco, non si debbono imitare senza timore di più innanzi portare que' difetti, che in essi non si può a meno di non riconoscere (16).

Correndo l'anno 1587 fu il medesimo Lombardelli richiesto

di condursi a Loreto, e convenendovi non tardò a dar mano agli affreschi nei laterali della cappella di Sant'Antonio (17). Brevissimo fu il suo trattenimento in questo luogo, giacchè ad artefice, che operava con tanta speditezza, era ben di poco conto quel lavoro. Da Loreto ebbe piuttosto a fare ritorno a Perugia, dove non appena fu giunto, della dipintura s'occupò di quelle dne lunette, che veggonsi nella sala della cancelleria del palazzo apostolico, in una delle quali figurò la disputa di Gesù co' Dottori, e nell' altra il Parnaso; di queste particolarmente parlando l'Autore dell'ultima Guida Perugina le dice fra le opere del Lombardelli le più stimate (18), ed io vi converrò per quello riguarda un certo incantesimo nel variare delle tinte, ma non pel resto, trovando più profondità di sapere in una cappella, che fu dei Danzetti nella Chiesa di Sant' Agostino, e che tagliata fuori dalla detta Chiesa allorchè si ridusse a nuova forma, dimenticata oggi rimane ed in pessimo stato, scoprendosi in quella parte di Convento che più s'accosta alla Sagrestia (19). Nella parete sinistra è la storia della condanna di Santa Lucia, e nell'altra il suo martirio. In questa seconda ebbe di mira, che l'occhio del riguardante soffermare si dovesse in un nudo posto innanzi nella figura di Manigoldo, che forzatamente rattiene la Santa avvinta ad una fune. Qui egli cadde in un difetto non raro neppure ne grandi Artisti; giacchè volendo cercare il grande urtò nel grossolano, e nel pesante. Difficile assunto è il difinire precisamente in che consistono certi caratteri, mentre è questa una di quelle doti, nel pittore forma la natura, senza che l'arte v'abbia parte veruna; quello solo che io saprei dirne è, che non la grande statura, o la mole delle figure fa il carattere grande, poichè anche nel vero qualche volta accade, che uomini assai alti col soverchio dare nel lungo in ogni loro parte appajono di meschino aspetto, ed all'incontro alcuni anche di piccola altezza di persona con opposto effetto danno nel grandioso. Può dirsi dunque, che sul diseguare un tal fine da due cose dipenda, cioè dalla scelta delle proporzioni, e dal dare un buon rilievo alle parti.

gran

che

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