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Si sarebbe supposto dopo ciò, che quel rapido succedersi di nuova perfezione al decadimento fosse continuato ad avvenire; ma i tempi cambiarono, ed ancor questo vantaggio perdemmo, e per quello, che ora siamo per riferire rapporto alla scultura del Secolo XVII. un contrario esempio ci si presenta, giacchè ebbe a toc care oltre l'estremo d'un secolo il falso operare, e la strada della verità non si riapri che a giorni nostri. Canova n' ebbe la gloria, e per esso tornaronsi a venerare i Fidia, i Policleti, i Mironi, gli Scopa, i Pitagori, e tant' altri, che la Grecia onorarono.

Allorchè dell' Architettura tenemmo discorso fu nostro avviso

d'investigare le cause, perchè al semplice del secolo antecedente fu sostituito il goffo, ed il bizzarro. Poco più, o poco meno potrebbe ora da noi ripetersi, giacchè queste arti vanno considerate come tutte appartenenti alla medesima famiglia, e così non può la gloria dell' una avvanzare quella dell' altra.

L'amore della novità nocque agli architetti, e doppiamente agli scultori, i quali cercando sempre nuove maniere, osservando la natura senza più imitarla, considerando sempre con venerazione l'antichità, senza più farvi studio, ed errando fra modi strani, diressero le opere loro all'opposto della verità, e del buon senso. Feracissimi ingegni produsse il secolo attuale, ma nelle arti, come in qualunque scienza se questi non sono regolati da un giusto criterio per cui sarebbero utili, tornano in danno. Non vi sarà chi nieghi, che Lorenzo Bernini non fosse di svegliatissimo intelletto, ma esso seppe meno guidarlo, quando vedendo esaltate le cose suc a segno, che solo teneva in Roma il dominio delle arti, sforzossi d'andare tant' oltre, che avanzò nella stravaganza quanto potette andare, innanzi nella vita.

Savio, e ragionevole è l'accorgimento dell'autore della storia della scultura, allorchè qual altra cagione assegna l'essersi dagli scultori stabilito qual principio fondamentale di trattare nei marmi

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soggetti convenienti al pennello, e di vestire le figure in quella guisa, che al pittore soltanto poteva convenire, alterando in tal foggia i principj dello scolpire.

Algardi avrebbe avuto maggiore rinomanza, se non avesse cosi strettamente imitati nel rilievo i bei modi di Domenichino, e non si fosse assuefatto ad imitare la pittura a preferenza dei rilievi degl'antichi. Ma per iscendere dal generale al particolare, aggiungerò, che fra le cause menzionate ebbe luogo anchè l'altra, ch'essendosi di molto diminuite le occasioni di grandi opere nelle provincie, come quelle, che già avevano innalzato grandiosi templi, e magnifiche residenze ai Magistrati ne' tempi anteriori, non ave vano più a provvedere gli artefici, i quali tutti lasciando le proprie Città a Roma se ne givano, trovando ivi soltanto mezzi opportuni da procacciarsi sostentamento, e nome. Nei Pontefici, che succedettero Gregorio XIII. era nata vivissima voglia d'abbellire la Dominante, ed ognuno ad opere straordinarie chiamava architetti, scultori, e pittori. Tale circostanza sarebbe riuscita oltremodo favorevole, se Roma specialmente non fosse stata signoreggiata dall'assoluta tirannia d' un genio straordinario, che tutto assorbi, ed invase, e che anzi, come altrove ho avvertito, cercava, che l'influenza del gusto che vi dominava s'estendesse per tutta l'Italia, ed oltre i confini della medesima. L'uso invalso d'ornare fuor di misura i prospetti dei templi, e dei palazzi facava sì, che cogli ar chitetti concorressero a quelle opere anche gli scultori, ed in tal guisa tanto per gli uni, che per gli altri v'era modo di essere provveduti largamente.

Nella Marca con l'essersi terminati i lavori di Loreto si era troncata la via all'esercizio della scultura. Recanati aveva chiuso le officine, ove si fondevano i bronzi, e l'influenza ottenuta dai Lombardi nel terminare del secolo scorso era già del tutto spenta collo spegnersi delle occasioni. Que' pochissimi, che animati erano ancora dal genio dello scolpire, a Roma si conducevano, e per aver fortuna allo studio del Bernini s'accostavano, come quello, che tutto poteva, e che quasi ogn'opera diriggeva. Vi avvio Lazzaro Morelli d'Ascoli, il quale aveva prima avuto in quest'arte i principj dal suo padre Fulgenzio, che nato in Firenze esercitava l'arte di Scultore, e d'Architetto in Ascoli; ma non appena

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s'avvide degli avanzamenti del figliuolo, che si conobbe non più capace ad assisterlo, percui a Roma inviollo alla scuola di Francesco Quenois Fiammingo, e male non s' appose; giacchè Francesco fu il solo, che meno d'ogn' altro risentisse i danni dell' età. Ma al Morelli interessava più di uscire in campo con tutti gli altri scultori, che d'apprendere l'arte dietro più sani principj; perlocchè preferi di togliersi da un Maestro, che non mai pago delle opere sue, era lento ad agire, e al quale si procurava che non pervenissero molti lavori, evitandosi in tal guisa, che il merito di lui potesse eclissare quello degli altri. Accostossi pertanto al Bernino, il quale scorto ch' ebbe in lui acutezza d'ingegno, ed attitudine al buon esercizio dell'arte, tanto più volentieri l'accolse, mentre non l'avrebbe di buon' occhio veduto frequentare più innanzi la scuola del Fiammingo. Al Bernini poi sempre più avvicinandosi si aumentò la di lui stima e non solo del suo parere più volte il richiese, ma compagno il volle in molte opere, ch' ebbe a fare. Era a que' dì il Bernino impegnato nell' imaginare la gran Fontana di Piazza Navona, opera, che infatti riuscì delle più grandiose eseguite in Roma, e che si presenta al primo aspetto maravigliosa. Ai suoi migliori discepoli assegnava l'esecuzione dei grandi Colossi, e in quanto al Morelli, che fra questi comprendeva, dispose, che scolpisse il Cavallo, che sta a piedi del Danubio, statua eseguita da Antonio Raggi, ed il Leone, che parimente è sottoposto al Nilo, lavoro di Giacomo Fancelli (3). Compiuta che fu questa grandiosa macchina, e ridotto il Bernino presso al fine de' suoi dì, ebbe a dar opera al monumento consacrato alla memoria di Papa Alessandro VII, da collocarsi in San Pietro. La sua mente era ancora capace ad imaginare, ma la mano non poteva più corrispondere con altrettanto d'attività a quanto la sempre fervida ed impetuosa fantasia gli suggeriva, percui dell' opera de' discepoli doveva ora più che mai profittare. Ad un Ginseppe Mazzola da Volterra commise la statua della Verità, alla quale diede lo studiato movimento di comprimere col piede sinistro un globo, dove scorgesi rappresentato il Mondo; ma il più singolare

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si è la specie di compressione, che riceve questo corpo rotondo,

per la quale esso si schiaccia come fosse elastico, rendendoci incerdella ti se con tal' atto abbia voluto l'artista alludere al gran peso Verità figurata allegoricamente, ovvero abbia inteso di dare al detto corpo sferico una grazia prospettica, dimostrandolo in quella figura. Al Morelli assegnò l'altra colla Carità, ed esso s'attenne al consueto costume d'atteggiarla con un bambino al petto. Le forme di questa statua risentono di quei difetti, che noi dicemmo communi agli scultori di quest' età, e quel suo comporre di pieghe è si strano, che meglio si direbbero roccie scolpite. L'altra Statua allegorica colla Benignità, che fece pel monumento di Clemente X. imaginato da Mattia Dè Rossi è studiatissima nel suo muoversi, osservandosi ancora nel panneggio un trito oltremodo disgustoso. Ed in questo lavoro ebbe anche parte l'altro suo concittadino, e condiscepolo Lorenzo Leti, a cui fu assegnato il basso rilievo, dove figurò l'apertura della Porta Santa; opera del maggior degradamento dell' arte (4). Come la Chiesa di San Pietro fu il campo, dove il gusto del Bernini trionfa, così non ebbero meno a lavorarvi i suoi Scolari. Il Morelli oltre le due menzionate Statue vi scolpi gran parte degli stucchi, che ornano la cappella del Sagramento, veggono e sono sue parimenti diverse di quelle statue, che si facciata della Basilica. A quest' oggetto d' esterni ornamenti era oltremodo richiesta l'operosità degli artisti in un tempo, dove non solo i Pontefici, ma le comunità religiose, e laiche o erigevano Chiese dalle fondamenta, o corregevano sulle vecchie quello, ch'essi non avevano più ne occhio, ne gusto da distinguere per buono. Morelli vi era chiamato come uno che godeva più degli altri della protezione del Bernino già salito a tanta estimazione, che niuno più di lui ebbe mai maggior pregio, maggior plauso, e più fama specialmente nelle opere di scalpello. Di mano del Morelli sono le statue nel prospetto della Chiesa di Monte Santo; quelle di travertino, che si veggono alla Madonna del Popolo; ivi sono pure sue le altre, ch' esistono nella cappella degl' Aquilanti, oltre una delle statue di stucco, che veggonsi in un degl'archi della

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navata maggiore. In fine nella Chiesa d'Araceli sono intagliati dallo scalpello di Lazzaro varj avelli e più ritratti, che rimangono a di lei ornamento.

Non v'è chi non sappia come la fama del Bernino suonasse si lontana, che anche le altre Nazioni si gloriavano di poter qualche cosa di lui possedere; gli onori poi ch'ebbe nel viaggio a Parigi tributatigli da Luigi XIV., il quale tanto amava queste arti, che intorno a se radunava i primi ingegni del secolo, ne sono la prova più evidente. Le opere che uscivano dallo scalpello del Bernini crano premiate in quella guisa, che il merito, l'opinione, ed il grado richiedevano; ma non potendo gli amatori facilmente queste ottenere si contentavano d'averne almeno alcune, che dal suo studio derivassero, e così anche il Morelli, secondo narra il Pascoli, spedì in Francia, in Inghilterra, ed in altre delle principali Città d'Europa le opere sue.

Mentre però a tali lavori quest'artista applicava, non era ancora giunto il suo Maestro a quell'apice di bizzarrìa, che usò nelle ultime sue opere, le quali comparvero nel ponte Sant'Angelo; osserva il Conte Cicognara non esservene una fra quelle statue, ove non veggasi torta ogni parte, anche dove sono le ossa. Tutte egli le diresse, ma non tutte l' eseguì; percui essendovi un' Angelo, che ha fra le mani i flagelli, e che dallo scalpello di Lazzaro uscì, Romani, che per la satira vincono Giovenale, gridarono, che quell' Angelo flagellava tutti gli altri; e con dir questo confermavano, che in bizzarria ed in stravaganza realmente tutti li vinceva; infatti i movimenti delle spalle, e le ossa delle ali sono di un genere si straordinario, che non eransi mai vedute in alcuna delle ali destinate a volare; a rendercene poi più certi concorre l'osservazione, che su tale proposito fà il lodato Conte Cicognara, allorquando espone, che per questo genere d'ali con ossa, e con penne ricurve fatte nella stessa guisa, che negli arabeschi s'usarono per fino le foglie d'ornato, derivò tale licenza, che lungamente penò la scultura prima di scostarsene.

Le molte ordinazioni ch' ebbe Lazzaro in Roma non gli

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