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fu altrove spedita. Soddisfatto in tal guisa Giorgio, e stabilita sempre più l'opinione di Pellegrino s'aumentarono talmente per esso gl'incarichi in Ancona, che lungo tratto ebbe a rimanervi. Ornò di suoi lavori la Chiesa di San Ciriaco, e vi fece cose degne di lui, e perchè come la pittura, anche la scultura sapeva con valore trattare, vi scolpì un Cristo di tutto rilievo maggiore del naturale, che al riferire dello stesso Vasari fu molto lodato (33). Per la Chiesa di San Domenico fece forse quelle due figure rappresentanti Mosè, che ora sono nella sagrestia, ed in queste mostrò quanto egli valesse nell' esprimerle, assegnandogli quel carattere grave e maestoso, che al soggetto conveniva. Ma più che in tali cose ebbe campo di mostrare il proprio ingegno, quando fu destinato ad ornare di stucchi e di pitture la loggia dei Mercanti, non risparmiando in quell'opera nè studio, ne fatica, perchè riuscisse di decoro alla Città, e d'onore a se medesimo. A questo scopo egli giunsc, replicando alla mente la subblimità, che osservata aveva in Michelangelo, ed in particolar modo nel tremendo Giudizio della Sistina. Vi figurò nel mezzo della volta la Giustizia che pone la guerra a piedi di Dio. Nei lati espresse la Fortezza simboleggiata da Ercole domatore dei mostri: la Vittoria, la Prudenza, e la Temperanza, dividendo questi dipinti da quattro statue in stucco che indicano la Fede, la Speranza, la Carità, e la Religione. Si tenne in questi soggetti ad uno stile risentito e forte, mostrandosi intelligentissimo dello studio dell' anotomia del corpo umano, riconoscendo questo come prima e più degna opera della natura. Perlocchè può indursi nella pratica di queste cose il Tibaldi come uno dei modelli più preclari. Non si dipartì dalla grazia in quanto può qualunque soggetto per terribile che sia trattarsi con elegante disposizione. Conservò un colorito che armonizza col carattere impresso nelle figure, e pel resto può ripetersi con Malvasia esser questo uno de lavori più compiuti che sia al Mondo (34). Sciolto con molto plauso da un'impegno tanto rilevante, diedesi a decorare il Palazzo dei Ferretti, di cui aveva egli stesso dato il disegno, ed ivi oltre un superbo fregio colla battaglia de' tre Orazj

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che dipinse nella maggior sala, volle che fra le due finestre fossero le armi di que' Signori sostenute ognuna da due donne, che simboleggiano le virtù di quell'onoratissima Famiglia, e sono esse con tanta gravità e studio figurate, che ben ricordano le bellissime, che Polidoro imaginò nel Vaticano d'appresso alle opere di Raffacle; giacchè era al pari di tale Maestro temperato il suo dipingere da tanta pastosità, che a ragione i Caracci solevano costui chiamare il Michelangelo riformato.

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Presso a questa sala è una camera, che per la ricchezza degli stucchi e per le dorature aveva poche a que' dì, che l'uguagliassero, ed ivi come giojelli, che per maggior risalto in bellissime cornici s' incassano, vedonsi otto storie dipinte dal Tibaldi con grand' erudizione, libero disegno e gajo colorito. È non meno che in queste cose risaltò il valore dell' artista, quando chiamato dipingere un palazzotto di villa, che questi Signori avevano po∞ lungi d'Ancona, in una sala figurando alcune storie si tenne alla maniera del Vaga, e del suo Niccolino, che pure in altri luoghi cercò talvolta imitare. Ma di queste ultime cose pochissimi resti oggi si hanno, giacchè quella villa fu per ogni parte malconcia nell'assedio che soffri Ancona nel 1799, epoca di dolorosa ricordanza, come principio di molti di que' mali, che aggravano l'infelice nostra esistenza (35).

Anche i Mancinforti vollero delle opere di Pellegrino ornato il loro palazzo, e per essi dipinse in una sala la venuta di Trajano in Ancona (36), ed ivi specialmente si mostra espertissimo nel saper bene in ristretto spazio compartire tanto popolo di figure, **nel variarle, e nell'agrupparle; ed in queste si tenne più allo stile forte di quello poi facesse in Macerata. Fu in questa Città chiamato a dipingere un fregio in una sala del palazzo pure architettato, allora dei Razzanti oggi de' Ciccolini; mostrò un gusto più delicato e più grazioso di quello comunemente adoprasse; sul qual modo attendendo soltanto Lomazzo (37), lo volle discepolo di Perino del Vaga, quando non ne fu che in qualche circostanza imitatore, come qui più che altrove può considerarsi.

Tom. II.

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da esso

Furono i fatti di Scipione che vi ebbe a rappresentare, ed in otto storie divise le principali avventure di quest' Eroe, scompar tendo ciascuna con variati termini dipinti a terretta gialla. È nella prima l'assedio di Cartagine dalla parte esposta al mare, e sotto vi scrisse novam Cartaginem expugnat; nella seconda spiegasi la generosità di Scipione a rendere la donna a Lucio Principe dei Celtiberi: esprime la terza l'imbarco delle soldatesche e delle bagaglie per l'Affrica: nella quarta il fatto d'arme e l'incendio indicato nell'epigrafe, che sotto leggesi: Flammis ferroque bina castra expugnat: nella quinta il parlamento che Scipione fa all'esercito nella sesta il suo trionfale ingresso in Roma: nella settima la battaglia contro Siface: nell'ottava finalmente Scipione, che impugna la spada in mezzo al Senato, dove a piedi scrisse l'artefice deserendo Italia deterret (38). È tanto per queste cose, come per le altre finora indicate mostrasi il Tibaldi oltrecchè valente pittore erudito si nella storia, che nella filosofia. Sono queste quelle cognizioni, che qualora fossero bene impresse ne giovani artisti, non li farebbero sì di frequente cadere in quegli errori, che alla convenienza dell' arte disdicono, e da cui specialmente nascono anacronismi fortissimi nelle rappresentazioni del disegno. Se la storia tanto si studiasse ora quanto dal nostro pittore appare studiata, noi vedremmo raccomandata la successione delle epoche ad una critica molto più scrupolosa

Ma per non tralasciare alcuna cosa di rimarco ricorderemo in fine le opere, che Pellegrino lasciò in una sala del palazzo de Duchi Cesarini in Civitanova. Furono queste diverse storie tratte dal poema di Virgilio, che in parte colori, ed altre toccò a chiaroscuro oltre bellissimi ornati. Duole il vederle ora deturpate in mille guise; e fu sorte che danno uguale non avenisse anche a quelle dipinture, che esistono in un camerino di detto palazzo, che però non sono che piccole macchie condotte fra grottesche e diversi stucchi. Da quello, che in mezzo a sì gran rovina ancora appare, facilmente ravvisasi quanto Tibaldi alla grandezza ed aggiustatezza del disegno il chiaroscuro egregiamente conformasse,

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del pari degli altri questi lavori ancora fanno manifesto quant' ei sapeva (39).

Monumento di grata ricordanza sarebbe pure per noi, se avesse ancora vita quel dipinto, che secondo narrava nel 1671 il Pittore Peruzzini allo storico della Felsina, vedevasi a suoi tempi nella Chiesa maggiore della Terra di Belforte, dove Pellegrino oltre il rappresentare in una tavola l'ingresso in Gerusalemme di Cristo, fece intorno alla medesima Cappella varj ritratti, e fra essi la sua imagine, che in giovanile età il mostrava, avente folta barba di pelo oscuro, ed il capo coperto da un berretto (40). Ma queste come altre cose deperirono, e noi perciò rimanemmo privi dell'effigie di un'uomo, cui tanto dobbiamo per l'avanzamento che per suo mezzo fecero le arti in questi luoghi.

Furono oltre a dieci anni, che il Tibaldi restò nella Marca d'Ancona, non abbandonandola che circa il 1562 per girsene a Pavia in servizio del Santo Cardinale Carlo Borromeo, dove architettò il magnifico e sontuoso palazzo della Sapienza.

Vi fu qualche Storico (41) che avverti essere Pellegrino sortito dalla Scuola del Ramenghi da Bagnacavallo, e Zanotti aggiunge, che tale parere avvalorano certe sue prime pitture, che molto sentono della maniera di questo Maestro ; ma questo modo di dipingere non esercitò certamente il Tibaldi nella Marca, e soltanto potette alcun dei nostri alla maniera del Bagnacavallo tenersi, quando appunto circa il 1562 al momento che di quà si partiva il lodato pittore, vennero ad abitare la Città di Sanseverino Bartolommeo messer Benedetto, e Francesco di messer Sebastiano suo nepote; detti per il lungo dimorarvi i Coda da Rimino, ma in Vero di Ferrara, da doye trassero i natali così avvertendo Barufaldi nella vita, che ne scrisse, e che inedita rimane tutlora colle altre dei pittori Ferraresi nella ricca Biblioteca Hercolani di Bologna. Aveva Bartolommeo studiato con poco frutto presso Giovanni Bellini (42); percui non conoscendosi forse buona guida, alla scuola del Ramenghi mandò il figliuolo (43), che venuto poi in Sanseverino diedesi a dipingere una pietà pel Convento

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di Santa Maria del Mercato, (44) della qual tavola potrebbe ripetersi quello, che già Lanzi scrisse del suo quadro per la Chiesa di S. Rocco di Pesaro, (45) cioè, che vi mostrò tanto buon metodo, che quasi in ogni parte sentiva dell'aureo secolo, in cui fu eseguito. Dalle memorie, che di costoro ancora si conservano nell'archivio de' Frati di San Domenico di Sanseverino, oltre il potersi credere, che questi pittori appartenessero alla regola dei Padri Predicatori, si ravvisa ancora che per lungo tratto ebbero stanza in questa Città, e vedesi altresì la loro vita prolungata oltre quella gli concedettero varj biografi.

Mentre però coi mezzi fin'ora indicati si favoriva l'esercizio dei nostri ad un'imitazione la più perfetta, avvenne nella Marca quello, che presso il terminarsi del secolo XVI. ebbe luogo in molte città dell' Italia meridionale cioè, che stanchi i pittori di tenersi ad uno stile che con buon disegno marcava i contorni, che riduceva a maggior semplicità le composizioni più complicate, che teneva armonia nel colorito, credettero d'uscire da questa, che loro forse chiamarono monotonia, e si diedero invece ad un genere, che li condusse al manierismo, e che di molto peggiorò condizione delle arti, come meglio c' accorgeremo proseguendo questa nostra storica narrazione.

Federico Baroccio da Urbino, che a Roma erasi condotto nella più verde età ad oggetto principalmente di studiare sulle opere Raffaele, dopo aver per qualche tempo tenuto per guida simile Maestro, credette scostarsene forse più per idea di novità, quello si fosse per intima persuasione; imperocchè io considero, che niuno mai riuscì si valente quanto coloro, che a Raffaele si tennero sempre strettamente, avendosi in esso il prototipo del bello, ed a Federico non poteva tuttociò essere ignoto. Volle esso pertanto prendere ad imitare la maniera di Coreggio, in particolar modo nella dolcezza delle arie delle femmine fanciulli, nell' accordare i colori e nella naturale aggiustatezza delle pieghe, dove forse anche lo superò. Ma trattandosi che Coreggio fu uno di quei pittori, ch'ebbe dalla natura prerogative sì singolari,

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